Davanti alla fotocopiatrice della piccola tipografia di via dei Pellegrini, l’unica in tutto l’isolato, adesso staziona fissa una sentinella. Siamo dentro Città del Vaticano, a pochi metri dalla casa di Paolo Gabriele, il maggiordomo infedele che avrebbe trafugato le carte del Papa, e la sensazione è quella di stare in un fortino: gendarmi che ti seguono con lo sguardo, auto con vetri oscurati che osservano ogni movimento, uomini in borghese che non fanno passare e chiedono di firmare fogli con destinazione e tragitto. Un quartiere blindato. Eppure, da queste parti, nessuno è convinto che lo scandalo Vaticanleaks sia colpa di Paoletto. E tutti, o quasi, sono pronti a giurare sulla sua innocenza. O, come minimo, sulla sua buona fede. Paolo Gabriele? «Beh, sì, aveva il vizio delle fotocopie…», conferma una guardia all’ingresso della via. Ma «è una persona onesta e buona», ribatte Maurizio, suo compagno di università. «Come può un uomo che non possiede ricchezza, e nemmeno la desidera, fare una cosa simile: tradire il Papa? Non ha mai fatto vacanza, e non ha mai avuto altri interessi al di fuori del suo lavoro: secondo me è innocente», dice Giovanna, che abita nel quartiere.
Lui, Gabriele, è rinchiuso in una cella poco distante, ai piani alti della Gendarmeria di via Sant’Egidio, dove c’è anche casa sua, in attesa di giudizio: rischia da 1 a 8 anni di carcere per furto aggravato di carte segrete. Approfittando di un momento di distrazione delle sentinelle, riusciamo a imboccare la via. A destra, una palazzina. Nel parcheggio ci sono ancora i due posti auto assegnati alla famiglia Gabriele, come dicono i nomi sui fogli appesi ai muri. Proprio di fronte, separata da un cortile, un’altra palazzina, più bassa, in cui vivono anche Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, scomparsa nel 1983; Pino Coco, capitano delle guardie svizzere; Loredana Farnesi, le suore di Sant’Anna, e Ingrid Stampa, la governante di Ratzinger. E sono loro che ci danno qualche dettaglio in più sulla vicenda, insieme alle voci raccolte in questo piccolo quartiere, in cui la gente parla quasi sussurrando, ma l’argomento pare essere sempre e solo questo: il corvo del Vaticano. I tre figli di Gabriele sono dai parenti, ci raccontano i vicini, nella casa adesso c’è soltanto la moglie, la signora Manuela Citti. Al citofono, però, risponde solo all’autista amico, che la scorta ovunque, senza farle fare un passo a piedi da sola. Aspettiamo. Intanto le agenzie battono le ultime news sul caso: che la condanna per Gabriele probabilmente arriverà ma sarà mite, che il perdono papale è quasi sicuro, che può ricevere le visite della moglie.
Sono passate da poco le undici del mattino, e finalmente la signora spunta dal portone, seguita dall’autista. Ha in mano un vassoio con i biscotti coperti da un panno, è vestita di nero, come gli occhiali e i capelli, gli orecchini ad anello che brillano al sole. Come va, signora? «Bene, speriamo in bene». Come si sente suo marito? «Andiamo avanti, e preghiamo». Sale in macchina, e se ne va.
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