Ai funerali di Andreotti: tra la vecchia Dc, Totti, i nuovi politici, e per le strade di Roma…
Visto da vicino, colpisce per la semplicità. Il silenzio, i presenti che snocciolano rosari, i capi chini, le persone in ginocchio sulle panche. Ma, poi, visto da fuori, nella piazza della chiesa San Giovanni dei Fiorentini, tutti i media internazionali non smettono un attimo di riprendere le scene che si susseguono. E’ il giorno del funerale di Giulio Andreotti, e tutti i nomi importanti scelgono di stare molto defilati. C’è Emilio Colombo, l’ultimo rimasto in vita dei padri costituenti la Dc andreottiana (oggi il più anziano senatore in carica), che rimane in fondo, e non vuole parlare con nessuno. C’è Geronzi, che preferisce sedersi esterno, in silenzio anche lui. Ci sono Gianni Letta (“ha segnato un’intera epoca”, l’unica frase che dirà), Mancino, Riccardi, Matarrese, Carraro, tutti poco propensi ad alzare la testa, ad incrociare lo sguardo delle persone, nel tratto che li porta verso la scalinata. Si ferma, però, Cirino Pomicino, il più eccentrico, e scaltro, tra gli andreottiani (nel film IlDivo di Paolo Sorrentino è memorabile la scena in cui Pomicino, in uno slancio di pura eccitazione da potere, conclude la sua corsa sul pavimento liscio del Transatlantico, con una scivolata), e dice: “Era un uomo di governo, quello che più di tutti rispettava le istituzioni”.
La bara, vista da vicina, colpisce per quanto è piccola. Come lo erano le sue frasi ad effetto. Un precursore di Twitter, in 140 caratteri riassumeva pensieri profondi. Infatti, ti vengono in mente quelli, mentre passa, portata a braccio dalle sue guardie del corpo di sempre: “se avessi avuto il potere assoluto, avrei fatto sicuramente qualche sciocchezza”, oppure “non basta avere ragione, bisogna avere anche qualcuno che te la dia”: in tanti qui, infatti, stanno postando queste sue frasi, sui profili dei social network. E’ il momento dell’arrivo del presidente del Senato, Pietro Grasso, che entra senza scorta, e non dice una parola. Poi, l’ex-presidente Mario Monti, che rimane a parlare con gli uomini del Viminale, cresciuti con Andreotti. Intanto, Cirino Pomicino, continua con le interviste, lo senti che dice: “Si formò accanto a De Gasperi, come uomo di governo e non di partito, e questo ebbe il suo peso”. Arrivano anche Enzo Scotti e Renato Farina, che rimangono vicini e usano parole di circostanza, per chi vuole una loro dichiarazione. Arriva Ciarrapico (che fu contemporaneamente amico di Andreotti e di Almirante), che non fa in tempo a scendere dalla macchina, che subito lo assalgono per qualche parola: “Una via insieme, una grande perdita, mancherà a tutti”. E, intanto, Cirino Pomicino che dice: “Giulio porta con sé tutti i segreti che tutti i grandi uomini di Stato portano con sé, per il bene dello Stato”.
Alla camera ardente (privata, come anche il funerale), allestita a pochi passi da questa chiesa, al civico 326 di corso Vittorio Emanuele, dove abitava, stamattina sono passati in tanti: dal Presidente Napolitano, al cardinal Bertone, a Forlani, Cicchitto, Fini, Casini, Alemanno, Rutelli, Pippo Baudo, la Giulia Bongiorno (“a lui devo moltissimo”). Al negozio di frutta e verdura, vicino al suo portone, c’è il proprietario commosso che chiude la serranda in segno di rispetto, quando esce la sua bara. Quello che vende souvenir romani, si affaccia sull’uscio, e si fa il segno della croce. Intanto, Luigi Venturi, lo aspetta dentro la chiesa. Lui è il prete che gli ha dato, sabato mattina scorsa, l’ultima comunione. E per una vita lo ha accolto alle sue messe, dietro casa, nella basilica San Giovanni dei Fiorentini. Nell’attesa, racconta questo, don Venturi: “Non usciva di casa da un anno, ma ogni settimana dovevo portargli la mia benedizione. Era debole, ormai, e non riusciva neanche più a ricordare le preghiere fino alla fine. Ma ogni nostro incontro, finiva sempre con lui che diceva: che dio ti benedica. Lui, a me”.
Le corone dei fiori, fuori dalla chiesa, portano i nomi dei suoi amici: Elisabetta, Angelo, Veronica, poi quella dell’ambasciata del Qatar, e pure del Nicaragua. Dentro, c’è anche esposto lo stendardo della Roma. Ora siamo vicini al libro delle firme, posto all’ingresso: un signore scrive “la città di Ladispoli ti ringrazia”, e subito dopo è il momento di una signora che scrive “tutto quello che sono riuscita a fare nella vita lo devo a lei”. Tutti hanno aneddoti, qualcuno li racconta: una donna dice di aver ricevuto tanti suoi sorrisi, nei momenti di disperazione; un’altra dice che nel palazzo era il più affabile. Qualcuno sventola la bandiera della Dc. Due applausi, fatti partire dalla folla, hanno accolto l’arrivo e la partenza del feretro in chiesa.
In questo quartiere, questa è l’ultima giornata del senatore a vita Giulio Andreotti, democristiano, 7 volte presidente del consiglio, ministro per 26 mandati, e teen-ager negli anni 20. I suoi libri, tutti bestseller. Guardi la bara passare, e pensi a quello dal titolo Cosa loro- Mai visti da vicino, in una parte che diceva “fino ad ora, avevo sempre considerato nel tempo galantuomo e nella forza invincibile della ragione”. Fino a ieri, quando si è spento nella sua casa-studio, vestito di tutto punto, con un completo doppiopetto blu, e il rosario in mano, steso sul divano. Dal ‘93 in poi, la discussione sulla sua figura e il suo ruolo nella storia repubblicana non è mai finita, per via di quel coinvolgimento nelle indagini sulle attività di Cosa Nostra da cui uscì assolto e prescritto. Infatti, qui i giornalisti americani, francesi, tedeschi, parlano ancora di questo, mentre osservano con noi lo spostamento della salma nella macchina che lo porterà al cimitero del Verano.
E’ proprio in quel tratto di strada, che rivedi tutta la sua Roma. Lungo questo tragitto: la sua prima casa in via dei Prefetti; poi villa Borghese, dove faceva lunghe camminate; laggiù c’è campo Testaccio, dove ha visto nascere la sua squadra del cuore, la Roma; qui dietro, il suo primo studio, a San Lorenzo in Lucina, con il preziosissimo archivio finito ora in un caveau blindato; poi, più in là, la saletta dell’Hotel Nazionale, dove andava a guardare i film da ragazzo; a piazza Navona, quando lavorava al Popolo, cenava con Trilussa. Ma la Roma di Andreotti era anche il Campidoglio, tra la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90, quando a comandare la Dc romana era quel Vittorio Sbardella, detto lo squalo, che nella squadra andreottiana diceva essere “il centravanti di sfondamento”. E, soprattutto, lo stadio Olimpico. Il capitano della Roma oggi ha lanciato un messaggio nell’etere: “Romanista come pochi, ora tiferà dal cielo”. Come pure Vladimir Putin (anche se è stato più generico di Totti): “Occupando per decenni cariche importanti, ha dato un grande contributo alla sviluppo di questo Paese”. Gli altri, i messaggi, li stanno scrivendo sul libro degli ospiti, che è l’unica cosa rimasta davanti alla chiesa. Con la gente ancora in fila.
E’ sul sito di Vanity Fair
(l’arrivo della sua bara in chiesa)
(Cirino Pomicino intervistato da tutti)
(l’arrivo di Emilio Colombo)
(il libro delle firme)
QUESTA è LA MIA INTERVISTA A GIULIO ANDREOTTI, DATATA 2008
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Un articolo bello secco.
grazie.
mi piace “bello secco” come commento al mio articolo…