Ragazzino gay suicida a Roma, la mia ricostruzione della vicenda.
Torraccia, Roma est, vicino c’è il quartiere San Basilio, poco lontano il raccordo anulare. In via Aldo Sandulli, per terra, appoggiati contro il muro di un edificio rosso – un comprensorio formato da una decina di case – ci sono due mazzetti di fiori finti, un bambolotto di pezza, un saluto scritto con il pennarello, e un quadretto raffigurante il papa. Alle 4 del mattino, di giovedì scorso, un ragazzino di 15 anni si è buttato dal terrazzo. Prima di farlo, scrive una lettera a mano, indirizzata alla madre “Nessuno mi capisce, non ce la faccio più”. La stessa frase la riporta sul suo profilo di Facebook, appena dopo cena. Poi, la solitudine, le ore di riflessione, infine, la decisione: dal secondo piano, dell’appartamento dove viveva con la mamma e il papà, fa le scale, sale fino all’ultimo, e si butta di sotto. Muore sul colpo. La notizia è stata diffusa solo il weekend successivo, quando è stato fatto il funerale in forma privata nella chiesa del quartiere, e ai media l’indicazione di massimo riserbo sui nomi, perché è questo il desiderio della famiglia.
E’ lunedì mattina, giriamo per le strade. Strade deserte, caldo a 40 gradi, cemento che fuma sotto i piedi, le persone che si incontrano hanno tutte gli occhi lucidi. Con loro, non si parla d’altro. Una signora si ferma a fare il segno della croce, davanti al portone di casa di Roberto. “Sono la barista, veniva a fare colazione ogni mattina da me, al “Dolce mania”: era un ragazzo molto timido, sempre silenzioso. Comprava le caramelle, per sé e per le amiche: ne aveva tre del cuore, con cui andava molto d’accordo”. Al forno, si fermava spesso il pomeriggio dopo scuola, portava sempre a casa un pezzo di pizza bianca per la mamma. Racconta il proprietario del negozio, il signor Carlo: “Quest’anno le sue usanze sono cambiate, perché è passato dalle medie al liceo. Nuovi compagni, nuova vita. Ma è sempre rimasto fedele al suo modo di fare riservato e solitario. Non si vedeva mai in giro la sera, dopo cena, e non frequentava i ragazzi del quartiere”. Dunque, i ragazzi che abitano in zona Torraccia, frequentano la scuola media Fellini o l’Alberto Sordi. E hanno la strada, come punto di incontro serale: sugli scooter, fuori dal bar. Roberto ha fatto il Fellini, e ha stretto amicizie forti con Virginia, con Francesca, con Noemi, Erica, Anna, Maria, e Elisa. Dal Fellini, è passato al liceo classico Orazio di Talenti. Era al primo anno di ginnasio. E con le sue amiche ha continuato il percorso di studi.
Ora, parla una di loro: “Aveva una certa sensibilità, che lo contraddistingueva dagli altri ragazzi. Era sempre attento, sempre gentile, sempre dolce. Avevamo legato parecchio, già alle media, e abbiamo continuato a frequentarci tutti insieme anche durante il primo anno di liceo, facevamo sempre i compiti insieme. Era sensibilissimo, come ragazzo. Ma tanto chiuso e riservato sulla sua vita privata. Anche in famiglia, non riusciva a parlare molto. I suoi sono genitori chiusi e rigidi. Educazione molto militare: infatti, nel quartiere vivono molti ex-generali, o ex-militari dell’esercito. A scuola è sempre stato tra i primi della classe alle elementari, tra i primi della classe alle medie, e ora pure al liceo. Capiva tutto, era più veloce di altri a fare i compiti, infatti era un valido aiuto per tutti. Per far capire quanto fosse diverso dagli altri, nella scelta dello strumento musicale da suonare, è stato tra i più anomali: ha scelto il violino. Il violino, capito? Uno strumento così solitario, così struggente, così malinconico. Era bravo a suonarlo, non a livelli di eccellenza, ma se la cavava. Anche quello, per dire, lo suonava sempre da solo”.
I genitori non ci sono. Si sono trasferiti a Terni, in una casa di famiglia. Tapparelle abbassate, da giorni. La vicina di casa, al citofono, racconta i dettagli di questa tristissima storia: “Alle cinque del mattino, la polizia ha iniziato a citofonare a tutti nel comprensorio, e ci chiedeva di guardare in stanza da letto, se nostro figlio stava dormendo, o non c’era più. Non riuscivano a capire chi fosse. Anche una mia amica, di ritorno dal turno di notte a lavoro, è stata fermata per strada, e gli è stato chiesto di riconoscere il ragazzo. Io mi sono affacciata alla finestra, e ho visto il suo corpo in strada: con la testa sul marciapiede, e il resto del corpo perpendicolare alla carreggiata. Un trauma, per tutti. Che deve far riflettere su molte cose”. Il fruttivendolo all’angolo, apriva la serranda alle 7 del mattino, quel giorno, e racconta: “Lo hanno portato via verso le 8 e 30, e fino a quel momento, tutti noi della zona eravamo raccolti qui intorno: abbiamo parlato a lungo, sul suo essere gay. Ecco, una cosa che fa molto male, è che in un quartiere di periferia come questo, si usa ancora la parola “frocio”, come se fosse normale. Invece, non è normale. Ci vuole più educazione, su questa cosa, da parte di tutti: amici, scuola, gente della strada. Le parole da usare, in questi casi, sono importanti. Possono ferire”.
Dall’altra parte della strada, dove ora ci sono quegli oggetti, dove la gente si ferma a fare il segno della croce, c’è l’ingresso al parco giochi del quartiere. Il proprietario, Luca, racconta: “Veniva qui sempre, da bambino. Lo conoscevamo bene. Ha smesso da qualche anno. Amava le giostre, e l’altalena. Passava ore su quell’altalena”. Un signore sui sessanta, arriva adesso nella via, e lascia per terra una lettera, scritta a mano: “Ciao Roberto, sono un nonno che si vergogna di questa ignoranza”. Davanti al muro, lungo la carreggiata di via Aldo Sandulli, ora ci sono i fiori, il bambolotto, il quadretto del papa, e una lettera scritta a mano da un nonno.
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(foto Greison)
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