Quello che le donne turche non dicono. il mio reportage nella periferia estrema di Istanbul (sul FattoQuotidiano)

La Turchia dal 2015 ha ottenuto la presidenza del G20, ed ospiterà il prossimo summit delle potenze mondiali. Appena ricevuto l’incarico, ha diffuso la notizia secondo la quale si appresterà a colmare entro il 2025 il gap esistente tra uomini e donne, a livello lavorativo. La Turchia che, secondo le Nazioni Unite, è il detentore della maglia nera dei peggiori paesi del mondo per tutela dei diritti delle donne.

Secondo il World Economic Forum, circa il 40% delle donne turche ha subito violenze fisiche famigliari. Nel 2013 sono state assalite e sottoposte a violenza fisica quasi 30 mila donne, e nei casi di morte (circa 250 di loro) gli assassini sono i mariti o altri membri della famiglia. La cosa allarmante è che i dati continuano a cresce esponenzialmente di anno in anno. Poi c’è Erdogan che dice: “Le donne non sono uguali agli uomini” (a cui ha fatto seguito una lunga serie di prese di posizione contrarie, tra cui spicca quella del Nobel per la letteratura Pamuk). Il suo vice, Bulent Arinc, che dichiara: “le donne non dovrebbero ridere in pubblico, questo alimenta la corruzione morale che domina la società” (dopo poche ore le donne turche hanno postato su twitter foto con i loro sorrisi, quasi un milione di selfie in poche ore). Ed è di qualche settimana fa la frase del premier turco: “il successo delle donne rappresenta il fallimento della famiglia”, poi diventata vignetta nel giornale satirico LeMan (la Turchia è tra i paesi con più alto numero di settimanali di satira).

Dunque, ora la Turchia vuole colmare il gap esistente tra donne e uomini. E uno degli elementi su cui si basano i dati allarmanti, è il fattore culturale nelle aree rurali. Entriamo in uno di questi, per capire la situazione reale. Perché è da qui che partono le iniziative più interessanti, le piccole fiammelle di luce, da alimentare, da sostenere. Mi ha incuriosito un racconto che la scrittrice turca più famosa, Elif Safak, ha fatto di un borgo ai confini di Istanbul, quando lei stessa ha fato due ore di viaggio coi mezzi pubblici, per andare di persona a leggere alcuni libri alle donne del posto, con l’idea di far conoscere nuove realtà attraverso le parole di un libro, con l’intento di smuovere qualcosa, di aprire un varco. Ho preso nota di quel paesino, e ci sono andata anch’io.

Kaynarka, Pendik, periferia estrema di Istanbul. Zona orientale, 50 km dal centro. Questo è uno di quei posti dove le forze di polizia, giudici e pubblici ministeri (tutti uomini), si rifiutano di perseguire reati in cui sono coinvolti mariti, padri, fratelli, che mai pagheranno per quanto fatto alle (loro) donne. Questo è uno di quei paesi dove le donne vivono chiuse in casa, e la percentuale di analfabetismo è molto alta. Il viaggio dura effettivamente due ore, come la scrittrice Safak ha raccontato. Prendo il Marmaray, il tram, il treno, e due autobus per arrivarci. L’ultimo tratto a piedi, prima di entrare nella scuola dove organizzano corsi pomeridiani per le donne, è il più bello. Le strade sono tutte sterrate, ad ogni macchina che passa si alza un grande polverone. Ci sono le camionette ferme ai lati della carreggiata con il portellone sul retro aperto, vendono giocattoli e macchinine di plastica. Altri furgoni vendono frutta, verdura, miele, prodotti della terra. Sono l’unica occidentale nel raggio di chilometri, quindi desta molta curiosità la mia presenza. Un ragazzo vestito bene mi ferma gentilmente per chiedermi come funziona la mia macchina fotografica. Qui ci si capisce a gesti, trovare qualcuno che parli inglese è raro. Per capire la tipologia di un negozio devi affacciarti dentro, fuori non c’è scritto niente. C’è un signore che per una lira turca ti fa pesare sopra la bilancia che tiene sotto lo sgabello. Al di là della strada principale, niente asfalto, passa un asino con un carico di pelli, quattro cani randagi dormono al sole, un bambino mi chiede di essere fotografato, si mette serio davanti all’obiettivo e aspetta lo scatto.

Ora sono dentro la scuola Halk Egitim Merkezi. Le donne qui possono venire liberamente, gratuitamente, seguono lezioni di lingua, per imparare a leggere e scrivere il turco. Poi il passaggio successivo sarà l’inglese. Nell’aula di fianco stanno facendo lezioni di musica, strumenti di base, una pianola, un flauto, una chitarra. Poi sopra si impara a dipingere, e c’è anche l’aula per i lavori artigianali seguita da Esel, un’insegnante molto pacata: collanine, lavori all’uncinetto, decorazioni per la casa. C’è anche la lezione di parrucchiera e manicure nella stanza in alto, tenuta da Cemile. Ma pure quella di disegno riscuote un discreto successo.

Le donne, un centinaio in tutta la scuola, divise per aule, sono molto incuriosite da me, vorrebbero chiedermi più cose di quello che riescono. Sema Enginsoy mi fa da traduttrice per le più ardite di loro, mi chiedono il nome, gli anni, e perché sono lì. Sema mi dice che questo è solo uno dei quartieri dove nascono questi punti di ritrovo, nella periferia di Istanbul ce ne sono diverse centinaia di simili, il totale delle donne che fa questa scelta decisiva è di qualche migliaia (su 650 mila abitanti di Pendik). “L’interesse per queste donne è volto sopratutto all’imparare qualcosa in più rispetto al nulla assoluto che regna in casa. Già soltanto fare il primo passo, che le ha portare a venire qui, è la svolta decisiva, è la luce. Il nostro piccolo lavoro serve per dare dignità alle donne turche, e per rincuorare le future generazione. Sembrano piccoli gesti quotidiani, i nostri, ma in realtà non lo sono”, racconta.

Il secondo posto dove entro è il Ertugrul Gazi, un altro luogo di grande fascino. Anche qui le donne vengono volontariamente ad imparare qualcosa. C’è chi trova piacere nel seguire un corso di canto, chi vuole imparare a leggere i giornali (attività che in casa vedono fare solo agli uomini), c’è anche chi segue corsi di cucina. Leyla Geagel, una donna sui quaranta, molto affascinante per i modi di fare cortesi, mi racconta che sta per essere premiata un’allieva che ha preso per la prima volta l’autobus da sola per andare in un posto oltre 5 km da casa (solitamente l’accompagnava il fratello con la macchina): si tratta di Sevda, 50 anni, chador, e un grande sorriso. Ieri invece è stata festeggiata Ferah, 35 anni, 4 figli, chador, occhi intelligenti: a casa ha riempito un quaderno intero con le frasi imparate al corso. Mi mostra fiera il quaderno, detentore del primato. Nella stanza accanto inizia il corso di educazione igienica. Ceylan, 20 anni, 2 figli, chador, sta facendo il corridoio di corsa per arrivare in tempo al corso di agente immobiliare (le case in Turchia vengono sù alla velocità della luce). La mia giornata tra le donne turche vola via così. E quando sono sulla porta, prima di uscire, mi raggiunge una donna, mi regala il suo disegno (è riprodotta una casa, e alla stessa grandezza una serie di uomini e donne alternati che si tengono per mano), dietro c’è una ragazza, mi chiede con i gesti se mi lascio fare da lei le treccine ai capelli prima di andare via. Quello che le donne turche non dicono è questo. Il gap che la Turchia deve colmare parte da posti come questo, con persone come queste. E vista da qui, Istanbul è ancora più bella.

 

 

E’ SUL FATTO QUOTIDIANO DI OGGI, 8 MARZO 2015 (PAG12-13)

 

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