Istanbul vista dai tifosi del Besiktas. I fatti di attualità nella curva più odiata da Erdogan, il Carsi
Non simpatiche canaglie, ma delinquenti disgraziati. Brutti, sporchi, cattivi. Da subito, senza scuse. In cerca dell’inferno. I tifosi, qui a Istanbul, hanno questa fama, questa etichetta, questa scritta che campeggia nitida sopra le loro teste. E i tifosi del Fenerbahce occupano un posto importante in questo podio speciale ristretto solo a tre squadre (le tre squadre della capitale), visti i fatti recenti che hanno portato alla sospensione del campionato per un turno. Ma il primo posto spetta ai tifosi del Besiktas, sono loro ad essere indicati come i più violenti, i più pericolosi. Il governo non li tollera, dopo gli scontri di un anno e mezzo fa. Gezi Park, again. Si parla ancora di questo. Degli scontri tra le forze dell’ordine (guidate da Erdogan) e milioni di manifestanti (che volevano fermare la costruzione di uno shopping mall al posto del parco) che portarono alla morte di 8 persone, 5000 feriti o intossicati, e oltre 2000 arrestati. E i tifosi del Besiktas sono i cattivi: il governo turco ha redatto accuse per 35 tifosi bianconeri che presero parte alle proteste, e nelle prossime settimane potrebbero trasformarsi per loro in ergastolo definitivo. E’ tra di loro che vado per capire meglio la situazione in Turchia.
“Tutto fa presa sull’opinione pubblica, a giugno ci sono le nuove elezioni”, mi dice il ragazzo che vende i panini prima dell’ingresso nella metro che mi porterà allo stadio, “è questa l’unica risposta a tutto quello che sta accadendo”. Mancano quattro ore prima dell’inizio della partita. E’ il giorno della partita, tardo pomeriggio, Istanbul, piove a dirotto. Il tratto di strada dalla metropolitana è pieno di tifosi con le sciarpe e i cappelli bianconeri. Ogni tre metri, bancarelle con bandiere e cerate antipioggia del Besiktas. Un ragazzo sdentato seduto sul cofano di una macchina vende ombrelli ufficiali del club. Altre due auto modello anni 70 con il bagagliaio aperto distribuiscono bibite e acqua. Una signora sui sessanta versa caffè caldo dal suo thermos per una lira turca. Un uomo vicino a lei mi domanda se sono greca. Mi sento guardata con sospetto non solo da lui, così chiedo un simit (il tarallo di pane croccante con semi di sesamo che loro mangiano ad ogni ora del giorno) al ragazzo dietro al carretto, altri mi circondano, mi chiedono nome, nazionalità, e il perché della mia presenza in quel posto, a tutti gli effetti “loro”. Racconto chi sono, e la mia intenzione a voler vivere per un giorno nella curva del Besiktas, per capire cosa sta succedendo non solo nel calcio turco, ma anche nel resto della città. Dopo un giro veloce di telefonate mi dicono che Alen è stato avvertito. Solo ora, inizia veramente la storia.
Cahil, detto il serpente (perché parla sibilando), mi spiega che qui tutti vengono chiamati con soprannomi, e che dovrò seguire Gokhan, detto sorriso, dentro lo stadio. Gokhan si palesa tra gli altri salutandomi con la mano, gli mancano due denti davanti sarà facile ritrovarlo (ecco perché quel soprannome). Il ragazzo del simit, invece, mi porge un cordino intrecciato con i colori bianconeri, e mi chiede di legarlo al polso. Decido di salutarli, e avviarmi. La curva del Carsi la raggiungo dopo tre controlli al mio pass e due perquisizioni. Il Carsi (si scrive con la A cerchiata dal logo anarchico) è il principale gruppo organizzato del Besiktas, il più antico di Istanbul, tra i suoi simboli ci sono l’aquila nera e Che Guevara. E’ tra i gruppi più odiati da Erdogan. In più di 5000 di loro hanno procedimenti giudiziari aperti. Nelle 38 pagine di relazione del procuratore si sostiene la tesi dell’appartenenza dei tifosi ad una organizzazione terroristica armata, con il fine di rovesciare il governo. La difesa parla invece di abuso del sistema giudiziario, e sostiene l’assenza di prove.
L’attualità più stretta, che è portato alla sospensione di una giornata di campionato, è stato l’assalto al pullman del Fenerbahce con armi da fuoco avvenuta nei giorni scorsi. Ora la capolista è il Galatasaray, e le altre due sono distanziate al massimo da 3 punti una dall’altra. Il calcio è argomento di tensione, così come i social network, che infatti hanno subito un oscuramento improvviso poco tempo fa. A cui si sommano gli ultimi avvenimenti di cronaca: il black out, il commendo di estrema sinistra che ha ucciso un giudice, gli attacchi bomba, l’uomo che entra armato nella sede del partito di Erdogan.
Stadio Ataturk Olympiat, a 40 chilometri dallo stadio di proprietà della squadra, l’Inonu (in fase di ristrutturazione, i lavori durano da tantissimo tempo). E’ lontano il centro di Istanbul, è una cattiveria dover percorrere tutta quella strada e due ore di viaggio: come mettere lo stadio dell’Inter a Busto Arsizio o lo stadio della Roma a Grottaferrata. Ma malgrado l’e-ticket e la lontananza dalla città, la curva è piena anche stasera. Appena raggiungo la scalinata ritrovo Gokhan con due suoi amici, e rimango immediatamente intrappolata in un muro umano, davanti e dietro di me. “Il Carsi è formato da gente di ogni tipo: professori, medici, ragazzi di strada, analfabeti”, mi dice. Gli chiedo del primato mondiale di decibel che vengono raggiunti dai cori che sento (132 decibel), e lui mi rassicura: “per la metà sono parolacce contro il Galatasaray”. Mi dice che solo nel Carsi ha capito il significato delle parole libertà, uguaglianza e verità, cose che non si imparano nelle scuole turche. Gli chiedo di poter parlare con chi dirige i cori durante le partite, e mi dice che uno di questi è Alen, va agli incontri pubblici, riceve premi, e quando avviene poi allo stadio gli espongono lo striscione “Alen papa” oppure “Alen dacci la benedizione”. Mi dice che è armeno, e in Turchia tutti gli armeni tifano Besiktas, gli ebrei sono del Galatasaray, mentre i greci sono del Fenerbahce (nessuno mi sa dire cosa tifino i curdi). Il suo amico Marcus, detto cammello, mi racconta che gli striscioni esposti sono una forma di ribellione alle repressioni del governo, e che proprio allo stadio sono stati diffusi i codici da digitare al computer per raggirare la chiusura dei social network ordinata da Erdogan qualche mese fa.
E’ il momento dell’ingresso delle squadre in campo. I tifosi intonano in coro il nome di ogni singolo giocatore, che quando viene chiamato corre verso il pubblico e lo saluta, alzando il braccio in segno di resa. I fondatori del Carsi hanno iniziato ad andare allo stadio da bambini, alla fine degli anni 70. In quegli anni gli stadi del Galatasaray e del Fenerbahce erano chiusi e gli incontri importanti si disputavano all’Inonu. Visto che i posti non erano numerati, i tifosi del Besiktas dovevano impedire agli avversari di occupare il seggiolino, e così ad ogni derby il tempo dedicato alla partita iniziava dal giorno precedente, quando andavano a dormire allo stadio per difendere il loro posto. Usavano pugni, bastoni e sassi, e man a mano sono passati ad armi sempre più importanti. A metà degli anni 80 i tifosi andavano allo stadio con armi da fuoco, i feriti e i morti iniziarono ad essere un fatto frequente. Ai periodi di scontri, si alternavano sempre momenti di tregua. E ora siamo in uno di questi.
Un ragazzo vicino a me, Hasad, sui trent’anni, mi dice di non amare il calcio, ma di essersi avvicinato al Carsi soprattutto per le sue posizioni sui temi sociali. E così inizia il suo elenco: “Abbiamo sostenuto una Turchia senza il nucleare, doniamo tutti il sangue, c’è stato un terremoto a Van siamo andati ad aiutare, per la fondazione per i bambini con leucemia abbiamo costruito nuove strutture, dopo il disastro minerario in Soma siamo partiti per andare ad aiutare, poi c’è la campagna che aiuta i ragazzi con disabilità, e le nostre cause in sostegno degli animali”. Nessuno mi sa dire quanto è grande il Carsi perché “non è un gruppo, è uno spirito condiviso in tutto il mondo”; nessuno sa indicare chi siano i capi, “qui non ci sono gerarchie”; nessuno dice di essere un ultras, “la parola ultras la usa solo il governo per dire: loro sono i colpevoli, lo sapete no?”. Ma ora inizia la partita, ora si può solo cantare.
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(intervista di approfondimento)
“C’è un progetto mirato a demolire la cultura e l’identità del tifoso da stadio, soprattutto nei luoghi dove il governo ha pochi consensi. A giugno ci sono le elezioni, tutto quello che accade ora in Turchia va riferito a questo”. A parlare è Ismet, sui quarant’anni, fisico robusto, uno dei ragazzi che intonano i cori dei tifosi del Besiktas allo stadio (non vuole rivelare il suo vero nome, per via del processo in corso). “Tra di noi ne parliamo spesso, e se guardate i paesi dove avvengono limitazioni maggiori alla libertà di espressione, sono tutti posti in cui i capi del calcio sono gli stessi da tantissimi anni, e non hanno mai risolto nessun problema, ma hanno fatto solo molta propaganda politica, e arricchito i loro interessi”.
Dove ne parlate?
“Nei social network, nei gruppi, nei ritrovi internazionali. Ritrovi reali o virtuali, insomma, con milioni di iscritti. Prendete la Passolig, una sorta di carta di credito introdotta in Turchia per restringere l’accesso agli stadi: è davvero difficile ottenerla, 70% dei tifosi ora restano a casa. Ma essere tifoso è un sentimento, quindi si può essere tifosi anche guardando la partita fuori dallo stadio”.
Come vi spiegate gli ultimi fatti accaduti?
“Ogni cosa che avviene orami fa parte della propagande pre-elettorale. Fa presa sull’opinione pubblica venire a toccare sempre qualcosa che riguarda il calcio o i tifosi. Qualcuno ha anche pensato che l’attacco al pullman del Fenerbahce fosse tutta una costruzione per poi arrivare alla sospensione del campionato, come decisione già presa in precedenza. Per il nostro governo è un problema il tifoso: non tanto perché andiamo allo stadio, ma quando pensiamo”.
Hanno chiuso i social network di recente, come avete raggirato la cosa?
“Ci mettiamo un attimo a raggirare la chiusura. I tifosi hanno metodi di comunicazione di massa che il governo si sogna. Le informazioni le facciamo correre non solo allo stadio, ma anche per le strade. Per esempio, c’è questo fatto recente: Ankara ha vietato le vignette di Maometto su Facebook. Noi le abbiamo diffuse in curva e abbiamo riso lo stesso. La gente della curva è: un impiegato, uno studente, un professore, un medico, un elettricista, un direttore di banca, un musulmano, un cattolico, un ebreo. Uomini di destra e di sinistra. Durante il colpo di stato del 1980, la dittatura militare vietò manifestazioni pubbliche e organizzazioni politiche, ma sottovalutò la potenza dello stadio di calcio, e della capacità che hanno i tifosi di riprendersi il diritto alla libertà di parola. Il governo vorrebbe controllare tutto questo”.
Gli stadi turchi hanno una lunga storia di violenza…
“Lo so bene, un terzo dei fondatori del Carsi è morto durante i tafferugli tra tifoserie rivali nei derby. In Turchia, in Egitto, ma forse anche in Italia e in Grecia, il calcio è così sentito tra la gente, che il governo vorrebbe prenderne possesso per manovrare l’intera nazione. Con le repressioni che stanno mettendo in atto cercano di suscitare paura nella gente, al fine di giustificare la violenza della polizia che potrebbe verificarsi in futuro, e intimidire un intero paese. Con l’introduzione del biglietto elettronico i tifosi hanno boicottato lo stadio: il Galatasaray ha i ricavi dalla vendita dei biglietti diminuiti di due terzi; ci sono delle partite in cui sono presenti soltanto 3.000 paganti. Il governo ha dovuto sospendere la vendita dell’e-ticket per Turchia-Brasile altrimenti non ci sarebbe andato nessuno: ha fatto di nuovo lo stadio pieno”.
Il campionato verrà sospeso per una settimana, dopo quello che è accaduto al pullman del Fenerbahce. Cosa ne pensate?
“Vi ricordo che due anni fa il Fenerbahce fu condannato per lo scandalo calcioscommesse, e non partecipa alle competizioni Uefa per questo motivo. In un certo senso l’accaduto va ridimensionato per questo motivo: il club non passa un buon momento, e l’opinione pubblica lo attacca continuamente, poi se certi esagitati si fanno prendere la mano succedono queste cose assurde. Però, ripeto, a giugno ci sono le elezioni: Erdogan stravincerà, oppure vincerà chissà come”.
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