Heysel, ritorno nel settore Z dopo 30 anni dalla tragedia (reportage x il Fatto)

Quando arrivi sotto la gradinata Z, ci arrivi da solo. Vietato farsi un selfie, qui. E sono vietate anche tante altre cose. Non puoi raggiungere i seggiolini con un amico, non puoi scattare foto divertite, non puoi parlare con nessuno. Sono le regole. Puoi solo inquadrare con l’obiettivo esattamente quella parte di campo che si vede da questa posizione. Ci arrivi piano piano, perché il silenzio di uno stadio di calcio deserto mette paura. Sono le sensazioni. Ancora di più se conosci la storia, la letteratura già scritta su questo posto. Siamo nel settore crollato il 29 maggio del 1985, il dramma conosciuto come “tragedia dell’Heysel”: fece 39 morti e 600 feriti, e tra pochi giorni saranno passati esattamente 30 anni. Bruxelles, stadio Re Baldovino, l’orario delle visite è appena cominciato.

La ricostruzione della curva Z, la rimessa a nuovo dell’intero stadio è avvenuta molto velocemente”, racconta Tom Teirlinck, “anche perché per Bruxelles è stata prima di tutto una vergogna. Ma non è stato usato per molto tempo, nessuno sapeva bene come gestire questa cosa”. Tom Teirlinck è la guida che accompagna le persone ad una visita veloce sul posto dove è avvenuta la strage. Ha molti aneddoti da raccontarti, il suo punto di vista è nuovo, né inglese né italiano, proprio come i belgi sanno essere. Non vuole essere fotografato, e ti dice tutto prima di arrivare al cancello: “Tra pochi giorni ci sarà la cerimonia ufficiale in cui verrà cambiata la targa esterna in ricordo delle vittime, fino ad allora ci penso io ad accompagnare le persone che vogliono ricordare questa triste vicenda. Chi vuole entrare allo stadio con me, però, non può farsi autoscatti o scherzare con gli amici, ci entra da solo e in rispettoso silenzio, perché in un’occasione come questa devi solo abbracciare quegli angeli che sono volati in cielo per quella maledetta sciagura, e niente di più”. Poi, conclude: “L’Heysel e una Bruxelles impreparata non fecero male solo ai poveri tifosi che ci lasciarono la vita, ma anche al Belgio”. Ma non è finita, Tom ti prende sottobraccio, abbassa la voce, e ti consiglia un altro incontro: “Poi, lo vedi quell’uomo laggiù, che sta sistemando gli ultimi seggiolini per il giorno dell’anniversario? La sua famiglia lavora qui da generazioni, e allo stadio quel giorno era presente”. Seguiamo il suo prezioso consiglio. L’uomo si chiama Herman Lanoye, sa dirti uno ad uno tutti i nomi che campeggiano sulla targa incisa fuori dallo stadio.

Finale della Coppa Campioni, la Juventus di Michel Platini sfida il Liverpool di Kenny Dalglish. La scenografia è quella che tutti ricordano: gli hooligans inglesi che accesero lo scontro, la polizia belga che intervenne poco e male, lo stadio vecchio che crollò sotto i piedi di migliaia di persone, e quello che ne restò fu solo questione di numeri: 32 italiani, 4 belgi, 2 francesi e 1 irlandese, morti schiacciati sotto il peso della curva. La partita si giocò e si vince, Platinì racconterà in seguito che a loro, ai giocatori non fu mai detto quello che era accaduto veramente. “Posso confermare, quella sera nessuno prendeva una decisione, si alternavano verità e bugie, chiunque scappava dal proprio incarico. Per questo, la colpa è di tutti. La colpa è del lassismo, la colpa è della codardia, la colpa è dello scarico di responsabilità, la colpa è di alcuni imbecilli, la colpa è di alcuni violenti, la colpa è dell’ignoranza”, dice Lanoye. E aggiunge: “Le curve delle due squadre erano contrapposte, ma accanto alla curva inglese, c’era una parte della tifoseria bianconera. Non il movimento ultras, ma semplicemente tifosi che avevano acquistato il biglietto, anche in Italia. Caricati dagli hooligans, che volevano lo scontro, i tifosi bianconeri provarono la fuga verso il campo ma la polizia caricò a propria volta. Fin quando il muro del settore Z non è crollato, tra chi è rimasto schiacciato e chi si è buttato nel vuoto per provare ad evitare la tragedia. Io ero molto giovane, ed ero presente. Non c’è una notte che non mi addormenti non pensandoci ancora”.

Alla celebrazione di metà maggio, qui allo stadio Re Baldovino, parteciperà anche Marc Tarabella, l’europarlamentare belga molto sensibile alle questioni legate al calcio: “E’ necessario stare vicino ai famigliari delle vittime, prima di tutto. Per noi quella dell’Heysel è una ferita ancora aperta, ci fa molto male. Ero presente anche alle celebrazioni cinque anni fa, fu tutto molto doloroso e commovente”. Verranno in tanti qui, ci sarà il momento del canto degl’inni, ci sarà il momento della deposizione delle corone di fiori, ci sarà il momento dei racconti di quella sera. La televisione di stato belga è già pronta, e con un giornalista molto in gamba, sta anche ultimando un reportage in Inghilterra e in Italia da mostrare a tutto il paese, ma a noi racconta le difficoltà che sta trovando nella raccolta delle dichiarazioni nel nostro paese: “E’ molto difficile far parlare gli ex giocatori di quella partita, ed è impossibile riuscire ad avere interviste programmate di comune accordo con le due società”.

Le associazioni delle vittime in Italia oggi sono rinate. Ognuna organizza i propri ritrovi, ognuna accoglie ricordi e dona abbracci. Ci sono anche i tifosi juventini che hanno aperto dei blog per stare insieme: alcuni passano, e lasciano il loro racconto, altri una poesia, altri ancora pensano ad una frase dolce per chi quella notte non riesce a togliersela dalla testa. Infine, ci sono quelli che postano foto e fiori. Ogni anno, sempre lo stesso mese, sempre lo stesso giorno. Così, da trent’anni esatti. C’è, anche, chi porta messaggi di pace allo stadio ogni domenica, nessun gesto estremo o disperato, solo il nome esposto su un piccolo drappo di stoffa, di uno dei presenti quella notte a Bruxelles. Poi, ci sono le singole iniziative portate avanti dai comuni: a Padova verrà inaugurata una mostra fotografica, a Bassano un torneo di calcio della categoria pulcini, a Cittadella una partita di beneficenza, a Torino ancora mostre fotografiche. Uno dei racconti più toccanti che si trovano in rete è quello di Matteo Lucii, a cui fu assegnato un biglietto del settore Z: “Ad un certo punto mi resi conto che stavo male che non respiravo più. Pensai di essere arrivato al capolinea. Feci appello a tutte le forze che mi erano rimaste e provai ad alzarmi nonostante il peso delle altre persone sopra. Alla fine ci sono riuscito. Come prima cosa pensai bene di uscire dallo stadio e cercare un telefono per avvisare a casa. Il mio primo pensiero fu quello, perché avevo perso pure la percezione del tempo. E invece quando io telefonai a casa erano le 19.40. Il collegamento con la Rai sarebbe iniziato soltanto cinque minuti dopo. La mia famiglia non si rendeva conto di quello che stavo raccontando. Capirono ben presto appena accesero la Tv. Così come fece tutta l’Italia. Non voglio immaginare l’angoscia di chi stava davanti alla Tv e aveva familiari o amici allo stadio”.

Gli 80 erano gli anni della Nintendo, della Perestrojka, della Guerra Fredda, delle Olimpiadi di Los Angeles boicottate, di Cernobyl, di Reagan come presidente degli Stati Uniti d’America, dei funerali di Berlinguer, ed erano gli anni della strage dell’Heysel. Del crollo di un settore che ha schiacciato bambini, uomini, ragazzi, tifosi, sotto il proprio peso, e sostenuto dall’ignoranza.

Oggi fuori dallo stadio Re Baldovino di Bruxelles i ragazzi della periferia nord della capitale organizzano partite di cricket. Ci sono dei anche dei campi di calcio per bambini, dietro una recinzione di ferro, dove i tornei vengono giocati scrivendo su fogli di carta le squadre allestite nello stesso momento in cui centinaia di ragazzini si presentano sul posto. C’è anche un cantante rapper che viene a cantare per loro. Questo è il paese di Stromae, e tutti quelli che si avvicinano alla musica vorrebbero diventare come lui, un giorno. Il ragazzo è molto bravo con le sue frasi in rima agguerrite e secche. Racconta che canterà pure il giorno della cerimonia in ricordo delle vittime della strage. Fuori dallo stadio Re Baldovino di Bruxelles, lui ci abita. Il suo nome è come quello del quartiere, e della metropolitana più vicina. Siamo a 10 chilometri dalla gare central, qui si arriva solo con i mezzi pubblici. La fermata si chiama Heysel. Nessuno ha mai pensato di dargli un nome diverso.

E’ SUL FATTO QUOTIDIANO IN EDICOLA OGGI

E IL 26 MAGGIO VADO OSPITE DELLA TV NAZIONALE BELGA A PARLARE DELL’HEYSEL, IO UNICA GIORNALISTA ITALIANA PRESENTE…

 

bru

 

 

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