Mi hanno chiesto di scrivere sulla tragedia di Genova e Ponte Morandi crollato, come l’ho vissuta io in Liguria. Ecco il mio racconto, su REPUBBLICA. #Genovatiamo #nonmollare

Mi hanno chiesto di scrivere sulla tragedia di Genova e Ponte Morandi crollato, esattamente come l’ho vissuta io in Liguria. Ecco il mio racconto, è su Repubblica.

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E’ scritto tutto a caldo, seguendo l’impeto del momento, delle ore concitate che si susseguono…e non penso ad altro che stare dietro alle notizie che arrivano. #Genovatiamo #nonmollare #sonoconvoi

 

 

di Gabriella Greison

Questa è la storia triste di una genovese fortunata. Una che da quel ponte ci è passata proprio la notte precedente alla tragedia. E quando ci era sopra ha avuto paura. Ha avuto paura proprio come tutti quelli che il ponte lo fanno ogni giorno e pensano che è troppo vecchio e no, non è possibile che regga a tutto quel traffico, a quelle code, cerchiamo di arrivare dall’altra parte prima possibile. Chiunque è di Genova fa questi pensieri da anni. Pensieri catalogabili come luoghi comuni, a volte, e si passa da questuanti se li si urla troppo. Il tratto tra Sampierdarena e Cornigliano, a ovest del centro, però è un pezzo obbligatorio da fare, se uno deve andare a Ponente, al mare per esempio, e poi tornare a Genova, o viceversa. E quindi lo si fa.

Mio cugino lavora al porto di Genova. Ogni giorno ha un turno di lavoro diverso, viene avvisato con un messaggio sugli orari della giornata successiva. Casa mia e quella di mio cugino sono attaccate, e poi accanto non c’è niente per chilometri: da piccola lo guardavo alla finestra quando usciva per andare a lavoro, abbiamo circa la stessa età, va al porto a lavorare da quando eravamo teenagers, e lo guardavo prendere la macchina ammirata, sedotta, rapita, quel cugino così indipendente che aveva una vita sempre uguale, a differenza di me, che idea strampalata quella di fare Fisica e viaggiare come giornalista in giro per il mondo, lui per me era l’eroe, non io, e mi trasmetteva sempre molta serenità sapere che il giorno dopo avrebbe fatto la stessa cosa, quando io ero lì.

Ho una casa dietro Genova, sulla prima collina, seguendo il Bisagno verso Scoffera, oltre Bargagli per intenderci. E ieri ho passato la giornata in casa a scrivere, perché qui mi rifugio appena posso scappare da Milano dove vivo, per scrivere i miei romanzi e i miei monologhi teatrali. E’ un posto strepitoso, che chiamano “la valle dei matti” e io ne sono fiera. Ieri ho passato la giornata in casa, e quando si è diffusa la notizia della tragedia del ponte, ho pensato di averla scampata bella la notte precedente. E poi come secondo pensiero: ho guardato subito se nel giardino c’era la macchina di mio cugino. Non c’era. Ho fatto mentalmente il conto delle ore che poteva aver fatto quel giorno, da quando non ho più visto la macchina la mattina all’alba, erano abbastanza secondo il mio insindacabile giudizio, ma lui non tornava. Mi confondevo, pensavo che quando io ero tornata di notte la sua macchina c’era, poi mi sono svegliata all’alba e la macchina non c’era, o forse non c’era neanche la notte, più cercavo di ricordare quando avevo visto la macchina l’ultima volta, più il tempo passava e le notizie dei dispersi e dei morti si affastellavano una sull’altra, ma arrivavano lente, a piccole dosi dai media. C’era poca chiarezza su tutto, si facevano illazioni, si facevano ipotesi, molte campate per aria. Mio cugino quando lavora non risponde ai messaggi, è la regola, non gliene mandai infatti. Aspettavo, aspettavo e basta.

Cercai fino al primo pomeriggio notizie che arrivavano dal web, volevo sapere esattamente la situazione: provai rabbia per alcune informazioni che venivano diffuse, come quella del fulmine o del maltempo. Da scienziata, da fisica, non potevo tollerare che si potesse pensare a una cosa del genere per far crollare un ponte: e così presi la macchina e andai in paese. Ero arrabbiata, ero angosciata: parlai con il panettiere, con il macellaio, con il fruttivendolo, con il barista, tutti genovesi, tutti allarmati, e cercai di trovare una logica con loro alle notizie che giravano. Quello che feci, a caldo, fu di cercare di dire a tutti, giù in paese, che un fulmine è come una piuma per un elefante grosso come cento mila elefanti insieme, e che non può fare niente a un ponte. A più persone possibili, giù in paese, ho cercato di raccontare l’ingegneria che c’è dietro ad un ponte: che non può essere messa in discussione da titoli di telegiornali allarmistici, ma bisogna invece ragionare su come sono stati fatti i lavori. Ho cercato di difendere anche l’ingegnere Riccardo Morandi, lui non c’entra niente in questa storia, ma è la manutenzione del ponte semmai che deve essere analizzata a fondo. E il fatto che sono stati rinviati dei lavori, programmati o rinviati, o fatti male. C’è la poca cura, c’è l’imperizia, l’imprudenza, il lasciare che le cose accadano, l’urgenza è sempre da un’altra parte sembra in questi casi. E questo atteggiamento è ben poco genovese, non è ligure. Queste sono state le mie reazioni a caldo, su questa triste vicenda. Tornai a casa, e ripresi ad aspettare l’arrivo della macchina di mio cugino.

Il pomeriggio era entrato nel vivo, e io cercai di trovare le occupazioni più disparate per non pensare: innaffiare i fiori no, c’era stata una tempesta d’acqua poco prima, potare le rose no, lo avevo già fatto quattro volte nel giro di due ore, piantare dei nuovi semi non era il caso, non volevo crescesse niente da quel giorno triste. Cercai di tornare a scrivere, ma non riuscivo a togliere lo sguardo dalle notizie che scorrevano nel secondo computer. Cercai di fare memoria del monologo, per occupare la testa definitivamente, ma ogni parola mi sembrava inutile e priva di senso. Allora decisi di non fare niente e andare ad aspettarlo in giardino, con una sedia, rivolta verso la strada, così avrei visto la macchina arrivare prima rispetto che aspettarlo alla finestra. Passarono altre tre ore, le più lunghe tre ore della mia vita, il tramonto arrivò, e anche lui. Mi raccontò quello che aveva vissuto quel giorno con i suoi colleghi, e i racconti dal porto di Genova. Gli dissi che no, l’ipotesi del fulmine è la cosa che scientificamente non regge, è da escludere, così come le altre cose che già ho raccontato agli altri in paese. Mi disse che al porto i suoi capi avevano mandato messaggi a tutti i dipendenti che non erano presenti, e c’è una sola persona che non ha risposto: un collega di mio cugino, che doveva andare al porto di Voltri, di turno quel giorno, che avrebbe dovuto fare quel ponte, esattamente all’ora della tragedia. Lui non risponde ai messaggi e alle chiamate, si pensa al peggio, mi dice. E quel giorno sono stati a lavoro più del previsto, perché erano tutti lì ad aspettare notizie da lui, ma niente.

Oggi mi trovo a Albissola Marina, a ovest di Genova, neanche trenta chilometri. Perché domani ho il monologo nella piazza del paese. Per arrivarci, stamattina, mi sono svegliata all’alba e ho studiato un percorso alternativo. Mi sono confrontata con mio cugino, che usciva per andare a controllare l’orto (mi ha portato in regalo dei cetrioli buonissimi, per il viaggio), e poi dopo con il panettiere e il barista di Scoffera. Nell’entroterra sanno già che per loro saranno problemi adesso. A Genova lo sanno. E questi problemi non dureranno giorni, o settimane, il tempo in cui i media staranno lì a raccontare le cose, ma dureranno anni. Perché ora i lavori prenderanno tanto tempo, e per tutti a Genova e nell’entroterra saranno guai. Gli spostamenti saranno un problema. Raggiungere qualsiasi posto ora sarà un problema.

Dall’entroterra di Genova per arrivare a Albissola Marina adesso ci sono due possibilità, non potendo fare il ponte: mettersi come milioni di persone in coda in una strada impercorribile dietro Sampierdarena e sperare di arrivare dall’altra parte (oggi è ferragosto, poi), oppure fare il giro da dietro, oltre l’entroterra. Ho fatto il giro da dietro, passando da Novi, l’ho allungata di 100 (cento!) chilometri, ma sono arrivata, dopo due ore e mezza, invece che in quaranta minuti. Lungo il tratto mi sono fermata due volte, alle stazioni di servizio non parlano d’altro, i benzinai non parlano d’altro, si stanno attrezzando con le cartine da distribuire ai passanti sprovveduti che non sanno fare il giro da dietro per andare a ovest di Genova. Chiunque in questo tratto vuole essere d’aiuto a tutti quelli che chiedono indicazioni stradali, perché il navigatore delle auto riporta sempre a fare il ponte, perché quello è il percorso memorizzato dai computer, ed è l’unico plausibile. Se si usa il cellulare come mappa, e si chiede un percorso alternativo, in certi posti la linea telefonica cade, e si è sperduti nel niente. Nessuno, all’infuori degli abitanti che si incrociano reali, possono darti indicazioni stradali. Ci sono dei signori del posto che si sono messi nei luoghi di svincolo e stanno lì, con le loro sedie, si danno il turno, per dare indicazioni stradali alle auto che non sanno dove andare per scendere a Ponente. Fanno quello da ieri, mi hanno detto. Altrimenti qui ci si perde. Qui è campagna. I genovesi, i liguri sono fatti così.

 

 

E sabato è dichiarato giorno di lutto nazionale, io farò un programma speciale su Radio2Rai che andrà avanti per 3 ore dalle 6 alle 9…per stare vicini, ed esserci, in un momento tragico come questo.

 

Altre info le metterò a breve sul mio sito…

Forza Genova, non mollare!

 

 

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